domenica 16 novembre 2014

1897. Segantini, Le cattive madri (o della vertigine)


Giovanni Segantini nasce nel 1858 in Trentino, e muore nel 1899 in una baita sullo Schafberg, nei Grigioni. Fu apolide per quasi tutta la vita, a causa di un banale errore della sorella(stra): e per questo motivo, nonostante già intorno ai trent'anni fosse noto in tutta Europa, non poté viaggiare che in Italia. E vi assicuro che la sua vita fu molto Misfits style.
Quand'è ancora bambino gli muore la madre, che dopo aver perso il primogenito (un anno dopo la nascita di Giovanni) era finita in una spirale depressiva irreversibile. A quel punto il padre, che è sempre in viaggio per lavoro, affida il ragazzino alla sorellastra Irene (la stordita di cui sopra), che però fatica a sua volta a mantenersi, e quindi Giovanni è di nuovo lasciato a se stesso. 
Alla veneranda età di sette anni viene trovato a vagare per la città di Milano, e quindi spedito in riformatorio, dove un'anima pia nota il suo talento per il disegno e lo incoraggia. Dopo qualche anno, un altro fratellastro lo prende con sé autorizzandolo a collaborare nel proprio studio fotografico: imparare i rudimenti di quella che sarebbe stata una delle nuove grandi arti del '900 aiuterà molto Segantini a indirizzare e consolidare la sua sensibilità figurativa.
Nel 1874 comincia a seguire corsi all'Accademia di Brera, da cui finalmente si avvierà la tanto meritata carriera. 

Comunque. Segantini è il classico artista che nei libri di testo viene appena citato, e ancora non s'è capito perché. Che ha lui da meno di Gustave Moreau? Moreau, per chi non lo sapesse, è questo qui: 

Lo citiamo perché Segantini dipinge in un stile (tutto suo) che recupera influenze Simboliste, di cui Moreau è il principale esponente. Il Simbolismo è una corrente artistica nata a fine Ottocento che molto doveva ai poeti maledetti francesi tipo Baudelaire e Mallarmé, che avevano avviato un modo di fare poesia cupo e morboso, con tematiche come la morte, la solitudine dell'artista incompreso, l'amore doloroso, la donna come creatura aggressiva che spezza i cuori o come mistero insolubile e inafferrabile (che spezza i cuori comunque). Misoginia? Un po', ma i tempi stanno per cambiare. E proprio dalla paura della rapidità del cambiamento nasce questa tendenza allo spleen che percorre tutta la storia dell'arte dalla Belle Époque alla prima Guerra Mondiale. 

Letteralmente spleen significa milza, ma nel linguaggio comune sta a indicare un umore - corporeo, si pensava - che la milza appunto secerneva, e che portava pittori e poeti a deprimersi e trovare ispirazione. Di fatto, di depressione si trattava: il mondo cambiava in fretta, l'urbanizzazione eccitava e soffocava insieme, e quindi spesso per avere tregua da una Parigi troppo frenetica ci si drogava all'inverosimile. In pratica i poeti maledetti erano gli hippies di due secoli fa, solo più snob e meglio vestiti. 

Sulle tele dei pittori le suddette seghe mentali diventano quadri dai colori cupi e dalla stesura pastosa, specie di Rembrandt horror, dove sono protagonisti rossi (carminio, amaranto, ma anche scarlatto e vermiglio), verdi e viola, e ovviamente una profusione di ombre e fonti di luce teatrale, che illuminano drammaticamente la scena.  
Il quadro che potete ammirare sopra corrisponde a questa descrizione (guardate quanto rosso! scelta non casuale) e ha un soggetto che sarà molto sfruttato in quegli anni: si tratta infatti della bella Salomé, principessa un po' deviata che dopo aver danzato stile 9 settimane e mezzo davanti al patrigno (nonché figlio di Erode, nonché ex cognato della madre, fuggitaconluimollandoilmarito), aveva ottenuto che ogni suo desiderio fosse esaudito, e aveva chiesto la testa di Giovanni Battista ("battista" cioè "che aveva battezzato Gesù") su un piatto d'argento - solo perché lui aveva dato della zoccola a sua mamma. 
Quando si dice un'infanzia difficile.

Segantini non ritrarrà mai donne così crudeli e sensuali, al contrario: della femminilità indaga più ciò che è delicato e materno, silenzioso e pieno di tormento, arrivando a rappresentare angeli con volti di ragazza. Le sue donne si avvicinano di più ad alcune tele Preraffaellite, come quelle di Burne - Jones (qui a destra), Millais o Waterhouse: ninfe, naiadi di montagna, fibrose come legno, pure come il marmo.

Infine, Segantini è famoso per aver inaugurato in Italia una tecnica pittorica molto particolare: il Divisionismo
In pratica è come il Puntinismo, il cui principio si basa sul dipingere a minuscole macchie di colore accostate l'una all'altra, svincolate però dal puro dato realistico e che si affidano invece al funzionamento del cervello: gli studi di ottica portati avanti a quell'epoca dimostrano infatti che il nostro modo di vedere i colori è associativo, per cui non esistono colori oggettivi nella percezione che abbiamo di essi, ma solo tonalità che accostate ad altre "cambiano" di volta in volta. Ad esempio, i puntinisti dipingevano l'erba a puntini gialli e azzurri vicinissimi tra loro: l'occhio da lontano li "mischia" e ottiene il verde. Il Divisionismo sfrutta lo stesso concetto, ma usando linee (leggi: pennellate) anziché punti: per questo la pittura del Segantini maturo ha quell'andamento filamentoso così caratteristico e poetico.

Le cattive madri nasce a metà degli anni '90 dell'Ottocento, e nel realizzarlo Segantini trae ispirazione da un poema indiano antico, dov'è descritta nel dettaglio la punizione inflitta alle madri che non sono state all'altezza del proprio compito. Non stupitevi della scelta un po' nerd: le fonti letterarie/artistiche esotiche erano in realtà molto di moda nella seconda metà del XIX secolo. Segantini aveva di particolare il fatto di essere stato analfabeta fino in età adulta, perciò la sua sete di cultura era stata disordinata e incontenibile. Da quando l'adorata compagna Bice (Luigia Pierina Bugatti, sorella di un pittore suo collega) gli aveva insegnato a leggere, aveva divorato tutto ciò che all'epoca era imprescindibile per un artista. Uno dei suoi autori preferiti era Nietszche, dal quale aveva assorbito la fascinazione per le filosofie orientali.

Le cattive madri descrive la straziante condanna delle donne che in vita rinunciarono al loro compito biologico, e che hanno l'eternità di una tela per rimpiangerlo. (Freud avrebbe qualcosa da ridire? Sì, ci piace vincere facile).
Soggette alla gravità infernale che  - in una postmoderna pena del contrappasso - le vede levarsi al cielo come fatte d'elio, alberi gelosi le stringono fra le braccia. E persino questi ultimi, nodosi e 'nvolti, sanno di un Dante omaggiato; stanchi, spogli, cupi, errori d'ortografia in china nera.

Come tutti coloro che hanno le creste innevate negli occhi fin da bambini, Segantini conosceva la roccia e il vento, e di roccia e vento sembrano fatte anche le madri, bellissime nella limpidezza dei corpi sospesi. La firma eterna di Segantini sono quelle incredibili, lunghissime e dolorose pennellate che sulla tela si levano chiare e trepide, vibranti, sismografie d'archetto.

Le cattive madri tuttavia sono circondate da madri buone, protettive, affidabili: le montagne, genuina patria dell'apolide pittore. Placide nello sfondo, sono la certezza, il baluardo contro l'imbrunire, un abbraccio solido, perenne.


Segantini seppe dipingere anche la tenerezza della maternità, ed è con questa infinita tenerezza che vi lascio: Le due madri sprigiona esattamente quel tipo di calore che in alta montagna è un lusso che solo l'infinito affetto di una madre può mantenere vivo anche nel pieno dell'inverno. 

Last but not least, dovete sapere che neanche il grande talento e la fama (che Segantini aveva all'epoca) gli valsero mai nemmeno la cittadinanza ad honorem. La scaltra Svizzera in compenso gliela offrì spesso, e dopo la sua morte gliela conferì, pure se lui non la voleva: Segantini era e si sentiva italiano. Tuttavia, bisogna ammettere che gli elvetici son svegli, meriterebbero un post a parte. Quale altro popolo è così furbo da celare paradisi fiscali dietro montagne verdi, orologi e cioccolato?

giovedì 3 luglio 2014

1909. Schiele, DANAE (o della grazia)


Oggi parliamo di una ragazza che, come tante altre nell'antichità, divenne famosa solo perché era andata a letto con un Dio e aveva partorito un eroe. 
Danae, questo il nome della "fortunata", era una bella greca di cui Zeus si era invaghito, e aveva scelto un modo molto originale di possederla: precipitare su di lei in una pioggia d'oro. Strano, vero? Eppure certamente più raffinato rispetto al metodo usato con Leda (la seduce sottoforma di cigno) o Europa (prima si tramuta in toro per portarla oltre il mare, nell'isola di Creta, e qui diventa aquila e poi se la fa. Vabbeh).

La domanda sorge spontanea: sarà per le curiose abitudini sessuali di Zeus che la progenie nata da queste ragazze madri ante litteram è sempre molto particolare?
Leda partorisce i Dioscuri, Clitemnestra e la bella Elena che tanti casini causò in quel di Troia, Europa sarà nonna nientepopodimeno che del Minotauro, e infine, nel caso di Danae, il figlio Perseo uccise maldestramente il padre, avverando così la solita cupa profezia che è l'oliva nel Martini delle tragedie greche. Fortunatamente per lui, comunque, la storia lo ricorda per aver decapitato la nervosetta Medusa, creatura perennemente incazzata che impietriva chiunque incrociasse il suo sguardo (no, non è un eufemismo).

Sia come sia, al pari delle succitate "colleghe" la Danae è sempre stata un soggetto molto frequentato dagli artisti, soprattutto dal Rinascimento in poi.


Famosa è la tela di Tiziano che si trova al Museo del Prado, (gemella della più brutta versione di San Pietroburgo, sempre sua), e altrettanto famose sono, in ordine cronologico, quella di Correggio (al secolo Antonio Allegri), meno sensuale e riuscita di molte sue femmine da idillio pastorale, e quella di Rembrandt, la peggiore delle tre: imbolsita e spaventata, se potesse chiudere le gambe per sempre non farebbe più nemmeno la pipì.

Ma se la Danae di Tiziano, altera e forte, accoglie con fierezza il seme dorato del dio (CFR con Artemisia Gentileschi: pure lei la mette in posa battagliera), già quella di Correggio è più soave nel farsi sedurre, preludendo alle Diane ottocentesche snelle e disinibite: come quella, bellissima, che riempie la tela verticale (formato molto sfruttato all'epoca) del bougueresco Alexandre-Jacques Chantron, di seguito riprodotta.

Senza perderci in ulteriori esempi che peraltro potrete facilmente trovare sul web facendo come ho fatto io (cioè googlando "danae" e scorrendo le immagini proposte), andiamo direttamente all'inizio del '900 a Vienna, dove Gustav Klimt realizza quella che oggi è in assoluto la versione più nota e commerciale del mitologico soggetto.

Non solo: si tratta anche della versione più erotica, dato che la vediamo in uno scorcio molto più ardito di quello del francese qui a lato, scorcio dove Danae ci mostra, come il gatto, il suo lato migliore (o quasi: ne vediamo infatti la coscia generosa e bianca, che ricorda un po' la perduta e sensualissima Leda di Michelangelo, alla cui esistenza crediamo grazie a bozzetti e copie, come questa del bravo Rosso Fiorentino).



Esattamente un anno dopo la realizzazione della Danae di Klimt, Schiele mette mano alla propria, oggi conservata qui a Londra alla National Gallery (dove si trova anche la Leda di Rosso).
[Tra la versione di Chantron (1891) e quella di Schiele (1909) ci sono 18 anni di differenza. Come si è passato in così poco tempo a una così evidente evoluzione stilistica? Se volete saperne di più, cliccate qui.]
Coincidenza? Claro que no. Schiele e Klimt erano pappa e ciccia, perciò sicuramente l'allievo aveva buttato un occhietto al lavoro del maestro. Tuttavia, appare chiaro che ci si trova di fronte a due opere molto lontane sia nell'impianto che nella resa espressiva, e ora vedremo perché.

Anzitutto, per quanto secessionisti, austriaci e contemporanei, Klimt e Schiele non potevano essere più diversi. Il primo era decorativo, eccessivo, trionfale; nelle sue opere c'era sempre qualcosa di prezioso, luccicante. Era la gazza ladra del movimento: nessun altro all'epoca ricercava ostinatamente quelle geometrie dorate al limite del pacchiano (anzi, i suoi colleghi, tipo Koloman Moser, tendevano decisamente più ad atmosfere cupe e severe).
Qualcosa che però accomunava i due artisti c'era, ed era il corpo femminile. Entrambi lo ritrassero nelle pose più diverse e contorte, a tutte le età e in tutte le fogge: belle e brutte, vecchie e floride, pudiche o tentatrici. Se però Klimt accentuava nelle sue donne la sensualità delle forme e degli atteggiamenti (come del resto potete vedere proprio nella sua voluttuosa Danae, tutta carne e desiderio), Schiele al contrario le spolpava, le riduceva a linea di contorno: una linea guizzante, elettrica, indomabile.

Klimt ritrae la lussuria (al punto che i fondoschiena di certe sue femmine ricordano icone femminili a metà tra Renoir e Tinto Brass), Schiele invece è pittore della tensione. Le sue donne (ma anche i suoi stupendi autoritratti, come questo del 1912), sono quasi bambole strette in troppa poca pelle, tutte occhi e giunture, piene di energia eppure che sembrano scricchiolare sotto il nostro sguardo.


Dicevamo che Schiele realizza la sua Danae nel 1909, a soli 19 anni. Non so voi, ma io a diciannove anni al massimo scarabocchiavo la Smemoranda e copiavo come un'amanuense folle i testi esistenziali e depressoni di qualche gruppo metal.

Schiele invece fu molto prolifico: in meno di trent'anni realizzò centinaia di dipinti e migliaia di disegni. Chissà, forse aveva qualche presagio di quel che l'aspettava: incarcerato con l'accusa di molestie su minori (perché ritrarre ragazzine appena pubescenti non era proprio il massimo del biglietto da visita neanche allora), finì pure in guerra, anche se considerato il suo talento venne tenuto al sicuro, a ritrarre ufficiali e tenenti. Tuttavia non fu la guerra a far scadere il suo tempo: nel 1918 l'epidemia di spagnola se lo portò via insieme alla moglie, alla figlia e a milioni di contemporanei. (Apro e chiudo parentesi: l'epipandemia influenzale portata in Europa dagli americani nel 1917 uccise più persone della Prima Guerra Mondiale stessa. Questo nei libri di storia non sempre lo scrivono).

In mezzo al suddetto corpus di automi iper espressivi, quasi aracnidi umani, la Danae spicca per contrasto, come una pausa prolungata in uno spartito barocco. L'ingombro del suo corpo è un'oasi di luce contro un groviglio nero, quasi una colata di petrolio colorato (prima si parlava di elettricità: le tracce verdastre e oro non ricordano anche a voi la sequenza dei titoli di testa/coda in Matrix?).

Lo sfondo, ricordiamolo, è naturale: li vedete gli uccellini che riposano sui rami abbozzati? Tuttavia c'è qualcosa di cupo e morboso: i germogli neri sembrano invadere il corpo di lei, sporcarla, inquinarne il chiarore. Gli uccellini stessi, per quanto vivaci nei movimenti, sono grigi, anonimi, robotici.
Danae sembra ignorare ciò che le incombe addosso (qualcosa di metaforico? La fine? La morte? La disperazione sottile che serpeggiava già anni prima che prendesse corpo nella Grande Guerra? Schiele, a riguardo, tace). Il suo corpo rannicchiato è una distesa pura, il suo volto esprime quel tipo di beatitudine che si ha durante un bel sogno, o appena dopo aver fatto l'amore. Nel suo caso è un misto di entrambi: non capita tutti i giorni di essere amate da (un) dio.

Eppure anche lei porta la firma di Schiele; che non è solo quella in basso a destra, con la data, ma anche e soprattutto l'inequivocabile scorcio della mano, stilizzata e legnosa, le cui dita contratte sono l'unico brandello di realtà in una donna che ormai, più che carne e sangue, è nube.

E' bello pensare che questa Danae, erede di una fitta schiera di tizie sedotte e abbandonate, sia di queste la somma: pudica ma non timida, sottomessa ma non piegata, serenamente consapevole della sua bellezza, del suo corpo; di quella grazia da madonna pagana che gli dei ci invidiano da sempre, fin da quando li abbiamo inventati.