giovedì 3 luglio 2014

1909. Schiele, DANAE (o della grazia)


Oggi parliamo di una ragazza che, come tante altre nell'antichità, divenne famosa solo perché era andata a letto con un Dio e aveva partorito un eroe. 
Danae, questo il nome della "fortunata", era una bella greca di cui Zeus si era invaghito, e aveva scelto un modo molto originale di possederla: precipitare su di lei in una pioggia d'oro. Strano, vero? Eppure certamente più raffinato rispetto al metodo usato con Leda (la seduce sottoforma di cigno) o Europa (prima si tramuta in toro per portarla oltre il mare, nell'isola di Creta, e qui diventa aquila e poi se la fa. Vabbeh).

La domanda sorge spontanea: sarà per le curiose abitudini sessuali di Zeus che la progenie nata da queste ragazze madri ante litteram è sempre molto particolare?
Leda partorisce i Dioscuri, Clitemnestra e la bella Elena che tanti casini causò in quel di Troia, Europa sarà nonna nientepopodimeno che del Minotauro, e infine, nel caso di Danae, il figlio Perseo uccise maldestramente il padre, avverando così la solita cupa profezia che è l'oliva nel Martini delle tragedie greche. Fortunatamente per lui, comunque, la storia lo ricorda per aver decapitato la nervosetta Medusa, creatura perennemente incazzata che impietriva chiunque incrociasse il suo sguardo (no, non è un eufemismo).

Sia come sia, al pari delle succitate "colleghe" la Danae è sempre stata un soggetto molto frequentato dagli artisti, soprattutto dal Rinascimento in poi.


Famosa è la tela di Tiziano che si trova al Museo del Prado, (gemella della più brutta versione di San Pietroburgo, sempre sua), e altrettanto famose sono, in ordine cronologico, quella di Correggio (al secolo Antonio Allegri), meno sensuale e riuscita di molte sue femmine da idillio pastorale, e quella di Rembrandt, la peggiore delle tre: imbolsita e spaventata, se potesse chiudere le gambe per sempre non farebbe più nemmeno la pipì.

Ma se la Danae di Tiziano, altera e forte, accoglie con fierezza il seme dorato del dio (CFR con Artemisia Gentileschi: pure lei la mette in posa battagliera), già quella di Correggio è più soave nel farsi sedurre, preludendo alle Diane ottocentesche snelle e disinibite: come quella, bellissima, che riempie la tela verticale (formato molto sfruttato all'epoca) del bougueresco Alexandre-Jacques Chantron, di seguito riprodotta.

Senza perderci in ulteriori esempi che peraltro potrete facilmente trovare sul web facendo come ho fatto io (cioè googlando "danae" e scorrendo le immagini proposte), andiamo direttamente all'inizio del '900 a Vienna, dove Gustav Klimt realizza quella che oggi è in assoluto la versione più nota e commerciale del mitologico soggetto.

Non solo: si tratta anche della versione più erotica, dato che la vediamo in uno scorcio molto più ardito di quello del francese qui a lato, scorcio dove Danae ci mostra, come il gatto, il suo lato migliore (o quasi: ne vediamo infatti la coscia generosa e bianca, che ricorda un po' la perduta e sensualissima Leda di Michelangelo, alla cui esistenza crediamo grazie a bozzetti e copie, come questa del bravo Rosso Fiorentino).



Esattamente un anno dopo la realizzazione della Danae di Klimt, Schiele mette mano alla propria, oggi conservata qui a Londra alla National Gallery (dove si trova anche la Leda di Rosso).
[Tra la versione di Chantron (1891) e quella di Schiele (1909) ci sono 18 anni di differenza. Come si è passato in così poco tempo a una così evidente evoluzione stilistica? Se volete saperne di più, cliccate qui.]
Coincidenza? Claro que no. Schiele e Klimt erano pappa e ciccia, perciò sicuramente l'allievo aveva buttato un occhietto al lavoro del maestro. Tuttavia, appare chiaro che ci si trova di fronte a due opere molto lontane sia nell'impianto che nella resa espressiva, e ora vedremo perché.

Anzitutto, per quanto secessionisti, austriaci e contemporanei, Klimt e Schiele non potevano essere più diversi. Il primo era decorativo, eccessivo, trionfale; nelle sue opere c'era sempre qualcosa di prezioso, luccicante. Era la gazza ladra del movimento: nessun altro all'epoca ricercava ostinatamente quelle geometrie dorate al limite del pacchiano (anzi, i suoi colleghi, tipo Koloman Moser, tendevano decisamente più ad atmosfere cupe e severe).
Qualcosa che però accomunava i due artisti c'era, ed era il corpo femminile. Entrambi lo ritrassero nelle pose più diverse e contorte, a tutte le età e in tutte le fogge: belle e brutte, vecchie e floride, pudiche o tentatrici. Se però Klimt accentuava nelle sue donne la sensualità delle forme e degli atteggiamenti (come del resto potete vedere proprio nella sua voluttuosa Danae, tutta carne e desiderio), Schiele al contrario le spolpava, le riduceva a linea di contorno: una linea guizzante, elettrica, indomabile.

Klimt ritrae la lussuria (al punto che i fondoschiena di certe sue femmine ricordano icone femminili a metà tra Renoir e Tinto Brass), Schiele invece è pittore della tensione. Le sue donne (ma anche i suoi stupendi autoritratti, come questo del 1912), sono quasi bambole strette in troppa poca pelle, tutte occhi e giunture, piene di energia eppure che sembrano scricchiolare sotto il nostro sguardo.


Dicevamo che Schiele realizza la sua Danae nel 1909, a soli 19 anni. Non so voi, ma io a diciannove anni al massimo scarabocchiavo la Smemoranda e copiavo come un'amanuense folle i testi esistenziali e depressoni di qualche gruppo metal.

Schiele invece fu molto prolifico: in meno di trent'anni realizzò centinaia di dipinti e migliaia di disegni. Chissà, forse aveva qualche presagio di quel che l'aspettava: incarcerato con l'accusa di molestie su minori (perché ritrarre ragazzine appena pubescenti non era proprio il massimo del biglietto da visita neanche allora), finì pure in guerra, anche se considerato il suo talento venne tenuto al sicuro, a ritrarre ufficiali e tenenti. Tuttavia non fu la guerra a far scadere il suo tempo: nel 1918 l'epidemia di spagnola se lo portò via insieme alla moglie, alla figlia e a milioni di contemporanei. (Apro e chiudo parentesi: l'epipandemia influenzale portata in Europa dagli americani nel 1917 uccise più persone della Prima Guerra Mondiale stessa. Questo nei libri di storia non sempre lo scrivono).

In mezzo al suddetto corpus di automi iper espressivi, quasi aracnidi umani, la Danae spicca per contrasto, come una pausa prolungata in uno spartito barocco. L'ingombro del suo corpo è un'oasi di luce contro un groviglio nero, quasi una colata di petrolio colorato (prima si parlava di elettricità: le tracce verdastre e oro non ricordano anche a voi la sequenza dei titoli di testa/coda in Matrix?).

Lo sfondo, ricordiamolo, è naturale: li vedete gli uccellini che riposano sui rami abbozzati? Tuttavia c'è qualcosa di cupo e morboso: i germogli neri sembrano invadere il corpo di lei, sporcarla, inquinarne il chiarore. Gli uccellini stessi, per quanto vivaci nei movimenti, sono grigi, anonimi, robotici.
Danae sembra ignorare ciò che le incombe addosso (qualcosa di metaforico? La fine? La morte? La disperazione sottile che serpeggiava già anni prima che prendesse corpo nella Grande Guerra? Schiele, a riguardo, tace). Il suo corpo rannicchiato è una distesa pura, il suo volto esprime quel tipo di beatitudine che si ha durante un bel sogno, o appena dopo aver fatto l'amore. Nel suo caso è un misto di entrambi: non capita tutti i giorni di essere amate da (un) dio.

Eppure anche lei porta la firma di Schiele; che non è solo quella in basso a destra, con la data, ma anche e soprattutto l'inequivocabile scorcio della mano, stilizzata e legnosa, le cui dita contratte sono l'unico brandello di realtà in una donna che ormai, più che carne e sangue, è nube.

E' bello pensare che questa Danae, erede di una fitta schiera di tizie sedotte e abbandonate, sia di queste la somma: pudica ma non timida, sottomessa ma non piegata, serenamente consapevole della sua bellezza, del suo corpo; di quella grazia da madonna pagana che gli dei ci invidiano da sempre, fin da quando li abbiamo inventati. 

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